Laboratorio del fare - Ricordiamo e/o impariamo il dialetto - illustrazione

Ricordiamo e/o impariamo il dialetto

Un contributo di Marcello

Mercoledì, 31 Marzo 2021

1. Merz marzot, long i de quant el not!

    Marzo marzotto, lunghi i giorni quanto le notti!

2. Merz, dal pa dschelz

    Marzo dal piede scalzo [perché il contadino può camminare scalzo per i campi]

3. Quand cant al bot, i én long i de quant el not.

    Al bot = il rospo.

4. Quand canta al mérel, a san fóra dl’invéren.

    Quando canta il merlo, siamo fuori dell’inverno.

5. Avréll,òura al pianz, òura al rédd

    Aprile, ora piange, ora ride
   (n.b. il termine "pianz" è una forma letterale, normalmente si usa "ziga")

 La voce è di Alessandro Piazza (del gruppo fortemente).

by Gruppo ForteMente

Categoria
Storia della nostra città
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L’ov binidet,l’è bon enca dop la Pasqua
L’uovo benedetto è buono anche dopo Pasqua
(proverbio in dialetto romagnolo)

Bello ricordare questi vecchi proverbi....ma come è difficile leggerli!! La cosa più buffa è scoprire come noi bolognesi usiamo delle parole non proprio italiane nel parlare comune.Mi ricordo che una volta, da ragazzina, mi ero impegnata ad essere molto ricercata nel raccontare ad un signore che avevo un po' di male ad un dente e come ci sono rimasta male nello scoprire che il termine che avevo usato per esprimermi "EDIA" non era italiano...ma bolognese....che vergogna!!!

La Signora Teresa Culiersi una persona del gruppo di signore bolognesi partecipanti al nostro Laboratorio “ForteMente” ci ha proposto questa poesia (ode) in dialetto bolognese tratta dal libro Cante de Paese di Gianni Moretti, dedicata al dialetto ed in maniera un po' ironica a coloro che lo vorrebbero far scomparire. Il titolo è Al Dialatt = Il Dialetto, scritta da Gianni Moretti.

La nostra amica Teresa Culiersi è la nuora di Marino Piazza il famoso cantastorie bolognese di cui scriverò in seguito. 
Anche Alessandro Piazza colui che ha letto ad alta voce in dialetto bolognese la frase: <Avrell, oura al pianz, oura al redd = aprile ora piange, ora ride> fa parte del nostro laboratorio ed è il figlio di Marino Piazza.

Teresa ha sposato il figlio di Marino: Giuliano Piazza che ha continuato l’attività di cantastorie del padre. Teresa è un insegnante in pensione dopo la morte del marito cura ogni anno la pubblicazione del “Lunario Bolognese” 
I Lunari bolognesi sono libretti tascabili, popolari, alla portata di tutti, la cui prima pubblicazione risale addirittura all’anno 1762, vademecum che raccoglievano informazioni utili per i coltivatori diretti ed anche per chi viveva in città o in paese, da consultare durante l’anno: c’era il calendario, con le fasi lunari, le previsioni del tempo, le fiere e i mercati, i lavori da fare nei campi nelle varie stagioni. 
Gianni Moretti nato a Baricella nel 1908 era un insegnante di dialetto bolognese che ha collaborato per diversi anni alla stesura del Lunario 
Bolognese.

copertina libro lunario bolognese 2021

La Signora Teresa Culiersi che partecipa al Laboratorio di ForteMente ci ha proposto questa poesia in dialetto bolognese dedicata proprio al dialetto ed ironicamente a coloro che lo vorrebbero far scomparire.

AL DIALATT                                                                IL DIALETTO

Qui ch's'dan l'ària ed sapientòn                   Quelli che si danno l'aria di sapientoni          
in adròven piò al dialàtt                               non adoperano più il dialetto
e i'al làssen ai sandròn                                 e lo lasciano agli zoticoni
tgnàndes sàul …. l'italianàtt …...                tenendosi solo l'italianuccio

ste linguagg modernizzè                             Questo linguaggio modernizzato
con strambucc ad stamp inglais                 con strafalcioni di stampo inglese
poc al pies in verité                                   poco piace in verità
a chi dscorr dialàtt bulgnais.                      a chi parla il dialetto bolognese.

“Amaur mi“as dis “my love”                      Amore mio si dice my love
(Scrett l'è my mo si lèzz mai)                    E scritto My ma si legge mai                  
in ste boffa langua nova                           In questa buffa lingua nuova
ma sent ban che fatt bacai!                      Ma senti bene che discorso strano!

Mo i zoven d'sti sit qué                            ma i giovani di questi posti quì
sanza tant ziricucbéin                             senza tante smancerie                   
preferessen dir acsé                               preferiscono dire così:
“At voi ban, bèll sprucaién!”                “Ti voglio bene giovane fanciulla”
 

By Gruppo ForteMente

Come Gruppo ForteMente, vi proponiamo il famoso cantastorie bolognese Marino Piazza con le sue "zirudelle" in dialetto bolognese; Grazie al contributo dei nostri soci Alessandro Piazza (figlio di Marino) e di Teresa Culiersi (nuora di Marino).

Piazza Marino ha incominciato la sua attività di cantastorie nel 1927 nelle fiere e mercati dell'Emilia-Romagna accompagnato alla fisarmonica dal fratello Piero, mentre egli stesso suonava l'ocarina e il clarinetto. Aveva il vezzo di anteporre il cognome al nome in modo da ottenere la rima "Piazza Marino, poeta e contadino”; la sua fama di imbonitore "in rima" gli valse anche la scherzosa qualifica popolare di incanta bess (incanta bisce). Era noto in particolare in provincia di Bologna e di Modena. Con le proprie canzoni narrò innumerevoli episodi di cronaca. Nel 1970 fu eletto Trovatore d'Italia alla Sagra dei cantastorie.

Potete approfondire la sua storia sul link: https://www.bulgnais.com/piazza-marino.html


 

fotografia cantastorie Marino Piazza

LE ZIRUDELLE

Erano esili fogli di carta colorata stampati da un solo lato e contenevano le "zirudelle": nella parlata contadina di una volta "zirudella" voleva dire filastrocca o poesia in dialetto, generalmente a rima baciata, che scorre veloce con espressioni immediate e semplici, umoristiche, popolari. Piazza Marino apparteneva a quella categoria di "poeti contadini" con poca cultura scolastica ma con tanta umanità ed ironia, capace di comporre e improvvisare zirudelle su qualunque caso della vita. La zirudella cominciava quasi sempre con: "Zirudela stè a scultèr" e finiva con: "Tich e tach la zirudela" oppure: "Toch e dai la zirudela" oppure altre varianti sillabiche che servivano da chiusura alla poesia.

ECCO LA ZIRUDELLA:

Pr un dsnèr ed campagna

Zè Rodèla fé pladùr (I)
Cuntadin, Garzón, Arzdùr,(II)
Siè pur Felsina più bella
Tic, e dai la Zè Rudèla.

Su, Cerghétt e Campanèr,
La starmìda andè a sunèr
Dei pur fort int la mzanèla (III)
Tic, e dai la Zè Rudèla.

Che i curài e gl’ingranà (IV)
Siè più belli e più sgurà,
Mudàv ben anc la stanèla
Tic, e dai la Zè Rudèla.

E s’ai manca i sunadùr
Tulì fora al maccaclùr
E piciàl int la padèla
Tic, e dai la Zè Rudèla.

Ed insòmma tutt ancù
S’ha da far a chi pò più
Che Mezfant l’è muntà in sèla
Tic, e dai la Zè Rudèla.

Per un pranzo campagnolo

Zirudella, fate chiasso
Contadini, Garzoni, Reggitori,
Sia pur Felsina la più bella
Tic e dai la Zirudella.

Sù, chierichetti e campanari,
a stormo andate a suonare,
dateci pur forte sulla mezzanella
Tic e dai la Zirudella.

Che i coralli ed i granati
siano belli e lucidi,
cambiatevi anche la gonna
Tic e dai la Zirudella.

E se mancano i suonatori
tirate fuori lo schiaccianocciole
e battetelo sulla padella
Tic e dai la Zirudella.

Ed insomma, tutti oggi
dobbiamo fare il più possibile
perchè Mezzofanti è montato in sella
Tic e dai la Zirudella.

By ForteMente


 

Quando la parola dialettale “umarell” mette alla pari il dialetto bolognese e il dialetto milanese con la musica. “UMARELLS” la poesia in musica firmata dal maestro Fabio Concato è nata dalla volontà di fissare i momenti vissuti a Milano nei mesi segnati dalla pandemia. Per la versione dialettale cantata da Fabio Concato il link è https://www.youtube.com/watch?v=__Z5tp8Lws0 “DOMENICA UMARELLS” il brano di Fabio Concato con il testo rivisitato da Danilo 'Maso' Masotti, nell'interpretazione di Riccardo Lolli https://www.youtube.com/watch?v=5BOVF9Z9vzw

e le parole che diventano italiane solo per i Bolognesi?

mi riferisco a parole come: malippo, insmito, imbalzato, invornito, rusco, tiro, tubana, zaccolona.

sono parole che arrivano dalla mia infanzia, che usava mia nonna quando cercava di parlare Italiano ma mantenere la sua esperienza e tradizione contadina bolognese, ma voi ne avete?

Un'altra parola, anzi un modo di fare tipico bolognese (ed io ci ho messo "una vita" a capire che non era "nazionale"!!) è quello di dire "ALTRO" quando, alla fine della spesa, non ti serve più nulla. Mi ricordo che quando una mia amica toscana me lo ha fatto notare....io non capivo....era talmente ovvio rispondere "altro".....che mi sembrava l'unica risposta corretta!!

Qualche giorno fa mi è stato regalato, dalla stessa autrice, un prezioso libretto su Bologna. Scritto con abilità, perizia e conoscenza, rivela alcuni segreti della città, della sua gente e della sua storia. L'ho letto con curiosità e stupore, perché oltre all'amore che rivela per i propri natali, l'autrice, Patrizia Passini, utilizza la rima in quartina di endecasillabi e aggiunge poesia ad ogni lettera dell'alfabeto per mezzo delle quali osserva la sua città. Vi trascrivo un passo che riguarda la lingua. (si consiglia la lettura delle note in fondo).

Dal Libro L'Ode a Bologna, Rime sulla città, di Patrizia Passini, Ed. Minerva, Argelato (BO)

R di Rusco e tanto Altro

 

Chi qui da fuori trova concilio

e poi ne prende il domicilio

non può sottrarsi dall'acquisire

alcuni termini, modi di dire

 

Pochi concetti, ma assai importanti

per viver bene e non trovarti

in situazioni assai imbarazzanti 

e per non sentirti "fuori dagli altri"

 

Da noi ad esempio niente immondizia

e né pattume, né avanzi o scarti,

una parola che tutto inizia:

è solo il rusco a prender parti (1)

 

E se per caso dici a qualcuno:

“La spazzatura vado a buttare”

probabilmente chiederà a tono:

“Vuoi dire il rusco? Scendi a parlare…”(2)

 

Ed è sì proprio nel pungitopo (3)

che c’è l’origine dell’enunciare

poiché veniva usato allo scopo

di fare attrezzi per rassettare.

 

Posto poi fuori dal casolare,

allontanando questo animale

che porta lo sporco e malattia

mentre che il cibo lo prende via,

 

Era lo spazio ove buttare

gli scarti tuoi del desinare

quando una volta plastica e carta

non avean fatto ancora comparsa…

 

Ora sveliamo un altro mistero

ormai ben noto a dire il vero:

il tiro infatti ha fama affermata

e o troviamo ad ogni entrata.

 

Chi qui a Bologna ci vive, è nato,

ormai gli pare del tutto scontato

che per aprir cancello o portone

deve pigiare il detto bottone.

 

Invece in chi non è bolognese

ed un amico viene a trovare,

oppure chi da un altro paese

qui vi si trova a soggiornare,

 

nasce un bel dubbio, nasce un quesito,

ha da ingegnarsi qua per capire,

mentre l’autoctono divertito

ben sa e comprende il modo di dire:

 

“Cos’è quel tiro giù nell’androne

a fianco alla luce, sull’interruttore?

Forza aiutatemi, nativa gente!

Cos’ho da tirare che non c’è niente?!

 

Sarà l’inquilino del piano rialzato?

Com’è possibile mi chiedo invano

Che c’è un signor Tiro domiciliato

In ogni palazzo e allo stesso piano??!!” (4)

 

Ed anche qui per comprender bene

dobbiam tornare al nostro passato (5)

quando aprivam con corde e catene

in un sistema meccanizzato.

 

L’ospite fuori schiacciando un pomello

così suonava un bel campanello

e si annunciava alla servitù

che poi tirando una corda in giù,

 

subito apriva l’entrata esterna

e pur arrivando l’elettricità

ancor si ricorda in data odierna

l’antico nome usato in città. (6)

 

E se ancora qui senti il grido:

“Oh! Per favore mi dai il tiro??!!” (7)

Vuol dire solo “Apri il portone”

non farti alcuna elucubrazione…

 

Son pure dunque i nostri portoni

A confermare a noi e a voi

Il nostro legame alle tradizioni,

alla nostra storia, così come ai buoi.

 

C’è poi un’altra cosa che hai da sapere

se vai al forno o dal salumiere

o in qualunque altra bottega

e sei servito a far la spesa.

 

Il negoziante che ha terminato

sì di servire una certa attesa (8)

chiede con fare determinato

“Altro?”…ed è qui che vien la sorpresa,

 

perché se tu non sei bolognese

ed “Altro” infine senti rispondere

abbi pazienza, non è scortese,

e non ti devi fare confondere:

 

qui l’acquirente conclude così,

non più altre cose vuole ordinare

si, è assai strano se non sei di qui

ma una ragione te ne hai da fare…

 

Finiam col verbo all’imperativo

e col pronome in oggetto maschile

che ancor non sai, ma è indicativo

di una richiesta, diciam, scurrile…(9)

 

Forse confonde pure il dialetto,

l’apoteosi della parlata,

ma qui trovandolo scrittolo spesso

curiosità viene innescata…

 

E l’interesse coì si muove

che chiedon: “Scusi: cosa vuol dire?

lo vedo scritto in ogni dove,

ma non mi è dato di capire…”

 

e il bolognese interlocutore

ride e poi ride e risponde infine:

“Dunque…fatico a trovar le parole,

che nessun’altra è così affine…

 

ma posso dire che è nostro intento

non svalutare questo argomento…

ecco…a non dirla ben proprio tutta

prova pensare a una cannuccia…”

 

Sol chi è di qui può ben capire

un po' di imbarazzo nello spiegare

a un forestiero che col suo ardire

vuole conoscere il significare.

 

Atto sessuale ben conosciuto

con cui Bologna dà il “benvenuto”,

senza vergogna o ipocrisia,

né resistenza o bigotteria,

 

e ancor ci dice che è da godere

ogni momento e ogni piacere.

Or qui enunciamolo senza pudore:

ci piace pure fare l’amore!

Note

1. Si intende che questa parola – rusco – a tal punto si è imposta nell’uso comune da aver travalicato i confini cittadini per imporsi anche nelle zone limitrofe, soverchiando altri appellativi locali e sinonimi. A Bologna da sempre è così indicata la spazzatura, ma l’origine etimologica del termine è da ricercarsi nell’antichità. Rusco o rossc nella versione ufficiale e dialettale più diffusa nella provincia bolognese, è una pianta cespugliosa, il pungitopo per l’esattezza, in latino ruscus, che veniva usato per realizzare scope e altri strumenti per la pulizia della casa. All’esterno delle antiche dimore, da quelle più sfarzose a quelle più povere, era usanza avere queste piante che avevano lo scopo principale di tenere lontani i roditori, portatori di malattie e pericolosi divoratori degli alimenti in dispensa. Nelle immediate vicinanze del rusco venivano gettati i pochi rifiuti alimentari che, in epoche lontane dalla plastica, erano costituiti da materiale organico che facilmente attirava l’attenzione di animali. il termine rusco divenne pertanto sinonimo gergale di spazzatura, a tal punto diffuso nel lessico comune da conservarsi nel corso dei secoli tanto che il servizio comunale dei rifiuti di Bologna lo ha adottato, creando un acronimo perfetto. Le lettere della parola ricorrono infatti nella dicitura Rifiuti Urbani Solidi Comunali.

2. Nel senso di: parla in modo chiaro, come si conviene, alludendo a come ogni altro termine sia percepito come “stonato”.

3. Il pungitopo (Ruscus aculeatus L) è un basso arbusto sempreverde con tipiche bacche rosse impiegate come ornamento natalizio appartenente alla famiglia delle Asparagaceae

4. A volte i due pulsanti per il tiro e la luce sono in fondo alla pulsantiera dei campanelli con i cognomi e i nomi dei privati nelle diverse abitazioni.

5. Risale ben al XVIII secolo il sistema meccanico di corde e catene utilizzato a Bologna per aprire il portone delle case. Gli ospiti, gli avventori che si recavano a casa di qualcuno, schiacciavano un pomello con cui facevano tintinnare un campanello all’interno dell’abitazione collegato tramite un sistema meccanico. La servitù, così allertata, poteva aprire il portone a distanza sganciandone la serratura tirando in modo forte e deciso una catena ad esso agganciata: da qui l’espressione “dare il tiro”, tuttora in uso.

6. Riferito all’entrata esterna.

7. Ancor oggi tale espressione “Mi dai il tiro?”, è abitualmente usata e la cosa curiosa è che comunque è estremamente localizzata nel territorio bolognese, mentre è sconosciuta nei dintorni.
Nel senso di richiesta, aspettativa.

8. Socc’mel, è un’esclamazione non proprio elegante piuttosto diffusa nel bolognese.

 

Dialetto

Quando, a sette anni tornai, a Bologna parlavo solo in dialetto veneto, incomprensibile per tutti e non fu facile per me imparare la lingua italiana. Del bolognese ne appresi una sola espressione, l'unica che non avrei mai dovuto imparare : 'So°°ia l'o°o!' non so come si scriva. La dissi in casa come segno di meraviglia e fui subito redarguita. Ugualmente quando la ripetei e poi scattò l'avvertimento di mia madre che mai mi aveva dato una sculacciata: “ Se la ripeterai ancora non la finirai di dire perché, prima, ti arriverà uno schiaffo sulla bocca.” E fu così.

Da quel giorno non ho mai più pronunciato quella espressione e nessuna altra parolaccia. Non è stato un trauma e il detto “Quando ci vuole, ci vuole” non l'ho mai preso in considerazione.

 

Il mio dialetto Veneto

Scusate se rubo un po' di spazio per il mio dialetto. Dato che mi aveva procurato tante prese in giro quando ero bambina lo avevo rinnegato e così quando tornavo nel Veneto parlavo solamente in italiano. E' capitato che ritornassi nel Veneto dopo la morte dei miei genitori e forse per rendere loro omaggio, con naturalezza ho ricominciato a parlare la lingua appresa da bambina lasciando tutti sbigottiti. A sentire cugini e zii, utilizzavo termine sconosciuti o che forse usavano i montanari delle colline vicine asserivano. Capii che il loro parlare si era italianizzato e consideravano dispregiativo rivangare certi termini che indubbiamente facevano parte del loro antico lessico. Ne ricordo due in particolare che io scrivo come pronunciavo:

Desgrendenà che significa molto spettinata e stroo che significa buio totale.